Diomede
Nel Lessico Ragionato dell'Antichità Classica dello storico tedesco Federico Lubker si legge:"...Anche in Grecia era considerato come eroe. Ad Argo, nella festa di Atena, lo scudo di Diomede veniva portato con pompa solenne insieme col Palladio, e la sua immagine era lavata nell'Inaco. Quivi il suo culto era collegato strettamente con quello di Atena che l'aveva fatto dio e perciò anche presso Omero è posto in attinenza cogli dei dell'Olimpo come qualunque altro eroe".
Così si profila il mito di Diomede, figlio di Tideo, re di Argo, e quindi principe reale. Ma il mito s'innesta nella storia perché Tideo era uno dei sette che avevano marciato contro Tebe. Egli, anzi, era stato mandato come mediatore di pace tra Eteocle e Polinice, due fratelli in lotta per quel trono.
La missione fallì, scoppiò la guerra tremenda, i due fratelli si uccisero in duello, i sette principi furono trucidati salvo uno, Adrasto, il capo. Demetra, la Giunone dei romani, gli aveva offerto per la fuga il cavallo Airone.
Dieci anni dopo i loro figli - gli Epigoni - mossero per vendicare quei morti; tra questi cera Diomede.
I "Sette a Tebe" vincono, distruggono la città,tornano in patria. Diomede arma una flotta di ottanta navi e fa vela verso Troia, dove infuria la guerra fra Greci e Troiani per il rapimento di Elena fatto da Paride.
Omero, nel canto V dell'Iliade dedicato alle gesta di Diomede, dice:
Quivi al figliuol di Tideo Diomede, die' Pallade Atena
tanto vigore e tanto coraggio, che insieme fra tutti
gli uomini d'Argo paresse, che grande ne fosse la gloria.
E balenar gli fece dall'elmo e lo scudo una fiamma
simile all'astro che sorge d'Autunno, che più d'ogni stella
fulgido appare, poiché s'è bagnato nei flutti del mare.
Tale dagli omeri a lui, dal capo bruciava una fiamma.
E si lanciò nel mezzo, dov'era più fitta la zuffa.
Così nella traduzione di Ettore Romagnoli. Ed in questa zuffa, Diomede ritenuto il più forte e il più saggio dopo Achille, affrontò Ettore, uccise Reso in un agguato, Pandaro e Palamede, catturò Dolone, ferì Enea, affrontò Ares, un dio, e ferì perfino Afrodite, la dea che si sarebbe vendicata facendogli trovare la moglie con un amante, al suo ritono ad Argo.
Consigliere e compagno di staordinarie avventure gli fu Ulisse. Memorabile la scalata delle mura di Troia per entrare di notte nella città e rubare dall'Acropoli, furto sacrilego, il Palladio, immagine di Atena, la dea dagli occhi azzurri.
Era con Ulisse nella pancia del famoso cavallo di legno che i Troiani fecero ingenuamente entrare nella città e dette con gli altri il segnale convenuto per il via ai Greci attestati fuori delle mura.
Che abbia abbandonato Argo cacciato dalla moglie o da uno degli amanti - se ne fanno tre nomi - o allontanatosi per succedere a suo zio sul trono di Calidone, è motivo di leggenda.
Noi lo ritroviamo a fianco di Ulisse, naviganti entrmbi verso nuovi lidi; sorpreso da una tempesta, si ripara alla fine sulle coste delle Tremiti - le isole dette Diomedee - , incontra il re Dauno, prende le armi come suo alleato nella guerra contro i Messapi, ne riceve in moglie la figlia e, in premio della vittoria un a parte delle terre della Daunia.
Diventa allora fondatore di città, Argo Ippio (Arpi), Benevento, Brindisi, Canosa ed altre, secondo la leggenda che circonda anche la sua morte, di vecchiaia o ucciso su commissione di Dauno, per invidia.
Con la leggenda il mito diventa poesia. Dai poemi Omerici a Eschilo a Virgilio a Dante, che risalendo dall'argine del ponte sulla ottava bolgia, vede infinite fiammelle, ciascuna avvolge e nasconde l'anima di un consigliere fraudolento; ce n'è una con due punte, una più bassa, quella di Diomede, la più alta quella di Ulisse.
Virgilio dice a Dante:
...là entro si martira
Ulisse e Diomede, e così insieme
alla vendetta vanno come all'ira
e Dante continua:
poi che la fiamma fu venuta quivi,
dove parve al mio duca tempo e loco,
in questa forma lui parlare audivi:
o voi che siete duo dentro a un foco
s'io meritai di voi mentre io vissi,
se meritai di voi assai o poco
quando nel mondo gli altri versi scrissi,
non vi movete, ma l'un di voi dica
dove per lui perduto a morir gissi.
E Ulisse racconta il viaggio nel quale morì, secondo un commentatore, il 9 aprile, circa il mezzodì. Quando Ulisse finisce il racconto del suo viaggio, Dante conclude con questa "orazion picciola": Cosiderate la vostra semenza
fatti non siete a viver come bruti
ma per seguir virtute e conoscenza.
(Francesco Maria CHIANCONE)